Sanità, dichiarazione falsa è causa di licenziamento?

Sanità, dichiarazione falsa è causa di licenziamento?

Gent.mi,

voglio condividere questa sentenza, affinché sia di esempio. Il collega, non saprei dire se scientemente o ingenuamente ha dichiarato di non avere procedimenti penali in corso. Quante volte, nello stilare la domanda per un concorso, abbiamo scritto di: “non aver riportato condanne penali”. Una frase considerata una prassi, spesso sottovalutata, ma, che al collega avrebbe potuto costare caro con il licenziamento.

Ciò nonostante, il collega avendo accettato un patteggiamento, implicitamente avrebbe ammesso la colpa, quindi il reato, anziché la reclusione avrebbe accettato lavori socialmente utili. Essendo trascorsi più di due anni, il reato commesso era stato dichiarato estinto e nulla risultava dal certificato del casellario. Il ricorrente, diversamente dalla ASL che ne ha preteso il licenziamento, sosteneva di essere convinto che il tutto si fosse concluso con lo svolgimento dei lavori socialmente utili.

L’infermiere è stato assolto poiché chi lo ha giudicato ha ritenuto non avesse una formazione tecnica tale da percepire la differenza tra una sentenza di patteggiamento ad una di condanna.

Il licenziamento del collega venne dichiarato illegittimo e reintegrato al posto di lavoro con la stessa mansione, condannando la AUSL alla corresponsione di un'indennità risarcitoria, dall’ultima retribuzione, a partire dal licenziamento, fino al giorno di reintegro, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per lo stesso periodo, con rivalutazione ISTAT ed interessi legali come per legge.

Ho deciso di condividerlo dal momento che ho vissuto, un qualcosa di analogo, attraverso una collega. Sono subentrata, solo successivamente ad un verdetto/condanna, di una commissione disciplinare. Delle colleghe, difese da un avvocato, difronte ad una commissione disciplinare, sono state punite, per un fatto addebitatogli, con la sospensione dal lavoro di 15 giorni. …mi venne detto di guardare la documentazione, ed esprimere ciò che pensavo. Ricordo di aver letto la documentazione, incasellato giorni, ore e dati, in excell, fu evidente che le colleghe non erano responsabili di quanto erano state accusate. Provai a dire loro, di ricorrere, con quanto avevo rilevato, ma le colleghe devastate dai fatti, non ne vollero sapere. Paradossalmente, l’unica aspirazione era fuggire da quel contesto, una di loro era in odore di cambio contestuale, ma, il fatto che gli era stato ascritto, non citato all’atto della domanda, bloccò il trasferimento. Io stessa parlai con la dirigente, ma, nulla valsero le spiegazioni, accludendo anche la documentazione. La cosa mi lasciò piuttosto male. L’avvocato delle colleghe scrisse dieci pagine, in loro difesa, ma non rilevò quanto rilevai io da infermiera, avvezza allo studio di certe sentenze. E’ importante, più che mai, che gli avvocati si consultino e collaborino con chi vive le realtà sanitarie quotidianamente. Un esempio: “il banale foglietto dell’aemogas analisi, ad esempio, rispetto ad una cartella clinica, mal compilata, può essere un ottimo supporto a vantaggio dei fatti, dal momento che contiene la data, e l’orario dell’esame”.

Nella speranza sia utile ai colleghi, cordialmente

Nursing Up Lazio

Laura Rita Santoro

Dichiarazioni non veritiere ex DPR 445/00 e conseguenze sul rapporto di lavoro instaurato

Fonte: centro studi di diritto sanitario e farmaceutico

In occasione dell'accesso al pubblico impiego le dichiarazioni non veritiere sono causa di licenziamento se comportino la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l'instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A. Nelle altre ipotesi, le produzioni o dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell'assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti.


Tribunale Terni sez. lav., 18/02/2020, , n.63

R E P U B B L I C A I T A L I A N A 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI TERNI SEZIONE LAVORO

in persona del giudice del lavoro Dott.ssa Manuela Olivieri ha

pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al numero 188 del registro generale dell'anno

2019 promossa DA

Le. Fe., elettivamente domiciliato in Terni, via B. Faustini n.8, presso lo studio del procuratore Avv.to Anna Befani che lo rappresenta e difende giusta delega rilasciata a margine del ricorso

RICORRENTE

CONTRO

AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE UMBRIA N. 2, con sede legale in Terni via Bramante n. 37, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta delega in calce al presente atto, dall'Avv. Mario Rampini presso il cui studio in Perugia, Piazza Piccinino n. 9, è elettivamente domiciliata, in forza di delibera del Commissario straordinario di conferimento di incarico n. 92 del 17.4.2019

RESISTENTE

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 26.03.2019 l'istante si opponeva ad ordinanza resa ex art 1, comma 49, della L. 92/12, in data 25.02.19 dal Tribunale di Terni, dott.ssa Francorsi, con la quale era stata rigettata l'impugnativa del licenziamento comminato dalla opposta il 7.08.18.

Esponeva in particolare: - di aver presentato in data 7.10.2014 domanda per la partecipazione alla selezione pubblica per titoli e colloquio a posti di collaboratore professionale sanitario - infermiere categoria D, indetta con provvedimento prot. n. 90678 del 26.08.2014; - che in data 16.09.2016 veniva indetto un concorso finalizzato alla stabilizzazione del personale precario per posti di collaboratore professionale sanitario; - di essere stato assunto il 21.06.2017 come infermiere categoria D con rapporto di lavoro a tempo indeterminato; - che in sede di sottoscrizione del contratto indicava di “non aver riportato condanne penali”; - di essere stato destinatario nel 2014 di sentenza di patteggiamento per guida in stato di ebbrezza con sostituzione della pena con lavoro socialmente utile svolto presso l'Azienda USL Umbria 2 e che successivamente il reato era stato dichiarato estinto; - che con nota del 16.04.2018 l'Ufficio Procedimenti Disciplinari gli contestava l'illecito disciplinare consistente nella commissione di falsità dichiarative; - che il 31.05.2018 veniva disposta la sua audizione durante la quale depositava certificato del casellario giudiziale su richiesta dell'interessato ed evidenziava di non aver compreso la natura della sentenza ex art. 445 c.p.p., stante anche il beneficio della non menzione nel certificato del casellario giudiziale; - che il 7.08.2018 con nota prot. n. 189785 l'Azienda gli irrogava il licenziamento disciplinare senza preavviso ai sensi dell'art. 55 quater, comma 1, lett. d) del D.Lgs. n. 165/2001.

Sosteneva l'illegittimità del licenziamento essendo l'Azienda convenuta decaduta dall'azione disciplinare per intempestività del procedimento, e comunque, da un lato l'ingiustificatezza del provvedimento espulsivo per insussistenza del fatto e assenza di dolo da parte del lavoratore, dall'altro la sproporzione tra il fatto commesso e la sanzione.

Rigettato il ricorso, l'opponente sosteneva: - l'erroneità dell'ordinanza impugnata nella parte in cui, sotto il profilo della tempestività dell'azione disciplinare, il Giudice di prime cure non aveva considerato che il ricorrente in sostituzione della pena di cui alla sentenza di patteggiamento, aveva prestato nell'estate 2014 lavori di pubblica utilità proprio presso l'Azienda convenuta che ben conosceva la ragione dello svolgimento di tale servizio da parte del ricorrente, procedendo, anzi, alla stabilizzazione dello stesso nel 2017 ed ingenerando nel lavoratore il convincimento del corretto instaurarsi del rapporto di lavoro; - l'insussistenza del fatto e la buona fede del lavoratore posto che al momento della dichiarazione il reato commesso era stato dichiarato estinto e nulla risultava dal certificato del casellario, ritenendo il ricorrente che tutto si fosse concluso con lo svolgimento dei lavori socialmente utili; - l'errore scusabile in cui sarebbe caduto nel compilare il modello di dichiarazione dove veniva richiesto di inserire se fosse stata concessa “amnistia, indulto, condono o perdono” senza, tuttavia, alcun riferimento alla sentenza di patteggiamento; - sproporzione tra fatto commesso, inidoneo a ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, e sanzione irrogata, contestazione non vagliata dal Giudice di prima istanza che ha limitato l'indagine alla verifica della riconducibilità del fatto commesso dal lavoratore alla fattispecie astratta senza accertare in concreto la lesività del fatto.

Tanto premesso nella presente sede l'istante chiedeva accertarsi l'illegittimità del recesso, con tutela reintegratoria ed indennità risarcitoria in misura massima e vittoria delle spese di lite.

L'opposta si costituiva tempestivamente in giudizio, eccependo in via preliminare la nullità e/o inammissibilità del ricorso, in quanto carente dei requisiti essenziali di cui all'art. 414 c.p.c.; - in via principale, opponendosi alle avverse richieste, insisteva per il rigetto della opposizione con conferma del provvedimento impugnato; - in via subordinata, nella denegata ipotesi di annullamento della sanzione disciplinare, chiedeva di rideterminare la sanzione in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato, ai sensi dell'art. 63, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001, con vittoria delle spese di lite.

Non veniva espletata l'istruttoria orale ed all'udienza del 13.02.2020 questo Giudice riservava la causa in decisione, ex art. 1, comma 57, della l. n.92/12.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Eccezione di nullità e/o inammissibilità.

Deve preliminarmente essere esaminata l'eccezione di nullità e/o inammissibilità del ricorso in opposizione sollevata dall'Azienda convenuta per violazione dell'art. 1, comma 52, della L. n. 92 del 2012 norma che dispone:

“Contro l'ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al comma 49 può essere proposta opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all'articolo 414 del codice di procedura civile” sull'assunto che l'impugnazione non indicherebbe né il provvedimento opposto, né alcuna esposizione delle circostanze fattuali necessarie per comprendere i motivi di impugnazione in contrasto quindi con l'art. 414, comma 1, n. 3) e 4), c.p.c. nella parte in cui prescrive quali elementi essenziali del ricorso “3. la determinazione dell'oggetto della domanda; 4.

l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni”.

L'eccezione è destituita di fondamento per quanto di ragione.

Sul punto il Tribunale richiama l'insegnamento della Suprema Corte secondo cui: “Nel nuovo rito del lavoro per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente l'omessa indicazione dei corrispondenti elementi in modo formale, ma è invece necessario che ne sia impossibile l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto, effettuabile anche d'ufficio e in grado d'appello con apprezzamento del giudice del merito censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione” (Cass. n.5794/2004).

Alla stregua dei su riportati principi, ritiene questo giudice che il ricorso introduttivo del giudizio sia adeguatamente determinato.

La parte ricorrente ha esaurientemente e sufficientemente, anche nel dettaglio, esposto tutti gli elementi in fatto ed in diritto a sostegno della sua domanda; ha, infatti, indicato il provvedimento impugnato emesso dal Tribunale in data 26.02.2019 allegandolo al ricorso in opposizione, nonché esposto le ragioni a fondamento della sua pretesa, a suo dire non correttamente valutate dal Giudice di prime cure, rassegnando le relative conclusioni.

La riprova di tale circostanza si ricava dalla lettura della memoria di costituzione, laddove viene compiutamente ed esaurientemente svolta la difesa della resistente, con particolare riferimento a tutti gli aspetti della fattispecie dedotta in giudizio.

2. Eccezione di decadenza.

È necessario brevemente richiamare la contestazione disciplinare mossa al ricorrente con nota del 16.04.2018 UPD USL Umbria 2 che ha determinato il licenziamento.

“Nello specifico si segnala quanto segue: il suddetto (Le. Fe.) in data 7.10.2014 ha prodotto istanza di partecipazione all'avviso pubblico per titoli e colloquio a posti di infermiere ... il predetto, nell'ambito della domanda di partecipazione di concorso ha tra l'altro dichiarato quanto segue:

3) Di non aver mai riportato condanne penali. In data 21.06.2017 il sig. Le. Fe. assunto in qualità di infermiere con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, all'atto della sottoscrizione del contratto individuale, ha rilasciato apposita dichiarazione sostitutiva ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n.445 del 2000, dalla quale è possibile rilevare quanto segue: “di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l'applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa”. Dalla successiva acquisizione del certificato del casellario giudiziale è emerso che il sig. Le. Fe. ha riportato il provvedimento in esso specificato. Valutati i contenuti delle note trasmesse, si ritiene sussistano i presupposti per l'avvio del Procedimento disciplinare, volto a rilevare eventuali responsabilità in quanto il comportamento posto in essere dal dipendente sig. Le. Fe. è in palese violazione degli obblighi e dei doveri d'ufficio ai sensi della vigente normativa contrattuale, così come recepita nel Codice Disciplinare del Comparto ... I fatti sommariamente descritti potrebbero configurarsi quali falsità dichiarative con riferimento alle disposizioni di cui al D.P.R. n.445/2000 ed all'ulteriore normativa vigente in materia” (cfr. all.to n.2 al fascicolo parte ricorrente).

È documentalmente provato ed incontestato che nella domanda di partecipazione al concorso redatta su fac simile predisposto dall'Amministrazione ed allegata al bando il ricorrente dichiarava “Di non aver riportato condanne penali” e al momento della sottoscrizione del contratto di lavoro in data 21.06.2017 il Le. firmava dichiarazione sostitutiva di certificazione ex art. 46 del D.P.R. n.445 del 2000, richiesto dall'art. 19 del D.P.R. n.220/2001, dichiarando di “Non avere riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l'applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa” (cfr. all.to n.5 alla memoria).

Dal certificato del casellario giudiziale depositato dalla Azienda (all.to n.6 fascicolo resistente) emerge che il ricorrente è stato condannato con la pena dell'arresto per guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell'uso di bevande alcoliche ai sensi dell'art. 186, commi 1° e 2° lett. c) e 2 sexies del D.Lgs. n.285/1992 pena sostituita per effetto della scelta del rito alternativo (patteggiamento ex artt. 444 e 445 c.p.p.) con il lavoro di pubblica utilità in favore della AUSL Umbria 2 per giorni 108 (sentenza 14/725 del 18.06.2014 Tribunale di Terni, cfr. all.ta al ricorso).

Parte opponente sostiene l'intempestività della contestazione disciplinare, posto che, avendo prestato lavori socialmente utili, in sostituzione di altra pena per effetto della sentenza di patteggiamento ex art. 445 c.p.p., proprio presso l'Azienda convenuta nell'estate del 2014, la AUSL Umbria 2 avrebbe dovuto conoscere da tale momento le risultanze della certificazione del casellario giudiziale del ricorrente e non lasciar trascorrere 4 anni (contestazione del 19.03.2018) ingenerando nel Le. il legittimo convincimento della corretta instaurazione del rapporto di lavoro.

A supporto della propria tesi la difesa attorea, richiamando la disciplina legislativa del pubblico impiego in materia di illecito disciplinare (art. 55 bis e ss. D.Lgs. n.165/2001 come modificato dal D.Lgs. n.75/2017), ha evidenziato che nel caso di specie il rapporto di lavoro tra il ricorrente e la AUSL Umbria 2 deve essere inteso unitariamente a far data dal 2014 con la conseguenza che la dichiarazione resa nel 2017 deve considerarsi riassorbita nella precedente rilasciata in data 7.10.204 allorquando il Le. presentava la domanda per la partecipazione alla selezione pubblica per titoli e colloquio a posti di collaboratore professionale sanitario - infermiere indetta con provvedimento del 26.08.2014, domanda nella quale dichiarava di “Non aver mai riportato condanne penali”.

La tesi attorea per quanto suggestiva non coglie nel segno, uniformandosi il Tribunale all'orientamento da ultimo confermato dalla Suprema Corte a mente del quale: “in tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall'acquisizione della notizia dell'infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55 bis, comma 4), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell'ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una "notizia di infrazione" di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell'addebito, dell'istruttoria e dell'adozione della sanzione; ciò vale anche nell'ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente (cfr. Cassazione civile sez. lav. del 05/12/2018 n.31482, conf. Cass., n. 7134 del 2017).

Prosegue la Corte concludendo che: “In tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, ai fini della decadenza dall'azione disciplinare occorre avere riguardo alla data in cui l'amministrazione datrice di lavoro esprime la propria valutazione in ordine alla rilevanza e consistenza disciplinare della notizia dei fatti rilevanti disciplinarmente e la consolida nell'atto di contestazione, assumendo rilievo l'eventuale ritardo nella comunicazione solo allorché detto ritardo sia di entità tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa" (Cass. n. 31482/2018 citata che richiama Cass., n. 16900 del 2016).

Ritiene il Tribunale che la contestazione disciplinare nel caso di specie debba reputarsi assolutamente tempestiva, in ragione della notizia dell'infrazione pervenuta all'UPD in data 30.03.2018 con nota prot. n. 0091576 posto che solo a seguito di tale nota l'Ufficio competente è stato reso edotto del fatto addebitato al ricorrente nella sua completezza ed ha potuto valutarne la gravità ai fini disciplinari avviando il procedimento disciplinare con nota del 16.04.2018 con la quale è stato contestato l'addebito.

Non manca chi scrive di rammentare, anche a sé stesso, che nel pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall'acquisizione della notizia dell'infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4), in conformità con il principio del giusto procedimento, assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell'ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una notizia di infrazione di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell'addebito, dell'istruttoria e dell'adozione della sanzione.

Non assume alcuna rilevanza giuridica rispetto alla decorrenza del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione disciplinare la circostanza che altri uffici e/o dipendenti della struttura in cui presta servizio il lavoratore siano venuti a conoscenza in qualsiasi modo di condotte e/o vicende giudiziarie del lavoratore, acquisendo rilevanza ai fini disciplinari solo la notizia dell'infrazione pervenuta all'UPD competente che la valuterà per l'adozione dei provvedimenti di competenza.

Nel caso di specie la condotta di rilevanza disciplinare, consistente nel rilascio di false dichiarazioni, è stata conosciuta ed accertata dall'Amministrazione a seguito dell'apposita istruttoria compiuta dalla direzione personale mediante confronto del certificato del casellario giudiziale con il contenuto delle dichiarazioni rilasciate dal Le., istruttoria che si è conclusa in data 28.3.2018 con la segnalazione dei fatti stessi al responsabile SITRO mediante nota prot. n. 89571 di pari data (cfr. all.to n.1 alla memoria).

Solo con la consegna di tale relazione ispettiva l'UPD ha avuto compiuta consapevolezza della notizia di infrazione con modalità idonee a consentire l'apertura del procedimento disciplinare con lettera di contestazione datata 16.04.2018.

Il Le. veniva sentito il 31 maggio 2018 e con nota con nota prot. 189785 del 7.8.2018 gli veniva comunicato il licenziamento senza preavviso nel rispetto quindi dei 120 giorni di cui all'art. 55 bis del D.Lgs. n. 165/2001 e successive modifiche.

3. Insussistenza del fatto e proporzionalità della sanzione.

L'art. 55-quater del D.lgs. n. 165/2000 prevede che “Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi: (...) d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera. (...) Nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento è senza preavviso”.

È stato precisato con riferimento alla fattispecie che ci riguarda che:

nei casi, quale quello in esame, in cui è contestata la condotta prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. d), il datore di lavoro, su cui a norma della L. n. 604 del 1966, art. 5, grava l'onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, può limitarsi, nel caso in cui la giusta causa sia costituita dalla falsità documentali o dichiarative, commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro, ovvero di progressioni di carriera, e, in particolare, dalle false attestazioni circa il possesso dei requisiti di ammissione al concorso e poi di assunzione, a provare nella sua valenza di inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare, la falsità delle attestazioni e delle dichiarazioni nella loro oggettività. Grava, invece, sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possono giustificare l'assenza di dolo o di colpa.

Deve ritenersi, infatti, che soltanto l'autore del falso è in grado di provare, per giustificare la sua condotta, che le false dichiarazioni ovvero la produzione di documenti falsi, non sono a lui imputabili ma frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità delle sue dichiarazioni e/o dei documenti prodotti” (Cass. civ., sez. lav., 24 agosto 2016 n. 17304).

Per insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la norma citata quindi, “lungi dall'aver reintrodotto un'ipotesi di destituzione di diritto in contrasto con le norme costituzionali (...), ha individuato alcune ipotesi, della cui particolare gravità la legge si è riservata ex ante la valutazione, ai fini dell'attribuzione in capo alle pubbliche amministrazioni del potere di recesso nella sua forma più forte” (cfr. Cass. 16.4.2018 n. 9314).

In una più recente pronuncia, la Suprema Corte si è spinta anche più avanti affermando che detta norma “delinea una vera e propria sanzione disciplinare, come tale assoggettata non solo al relativo procedimento applicativo (art. 55-bis d.l.vo 165/2001), ma anche alla regola della proporzione della misura rispetto al concreto atteggiarsi dell'infrazione nella singola vicenda” (cfr. Cass. 11.7.2019 n. 18699).

La sentenza citata della Suprema Corte passa al vaglio due norme disciplinanti le falsità documentali che si verificano al momento dell'accesso all'impiego pubblico.

Il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 127, lett. d) norma che prevede che vi sia decadenza dall'impiego "quando sia accertato che l'impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile".

Il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 75, rispetto alle dichiarazioni sostitutive, che prevede invece che la "non veridicità del contenuto" comporti la decadenza del dichiarante " dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera", casi in cui l'effetto caducatorio (rendere nullo) è delineato senza margini di apprezzamento discrezionale per la P.A. e per il solo fatto oggettivo della falsità.

La Corte ha specificato che: “Il tema delle falsità documentali che si verificano al momento dell'accesso all'impiego pubblico coinvolge una pluralità di disposizioni coesistenti, di cui è necessario apprezzare la portata ed il rispettivo ambito.

Il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 127, lett. d), in particolare, prevede che vi sia decadenza dall'impiego "quando sia accertato che l'impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile". Il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 75, rispetto alle dichiarazioni sostitutive, prevede invece che la "non veridicità del contenuto" comporti la decadenza del dichiarante " dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera". Si tratta in entrambi i casi di fattispecie in cui l'effetto caducatorio è delineato come tale da determinarsi, senza margini di apprezzamento discrezionale per la P.A. e per il solo fatto oggettivo della falsità. La tutela dell'affidamento della P.A. rispetto alle autocertificazioni, su cui fa leva la Corte territoriale al fine di escludere la rilevanza dell'accertamento in concreto dell'incidenza che quanto erroneamente dichiarato o taciuto, non può infatti giungere, pena l'intollerabile rinuncia ad un confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto (v. Corte Costituzionale 329/2007, cit.), fino al punto di determinare la necessaria caducazione di un rapporto di lavoro rispetto al quale l'erroneità o l'insufficienza dichiarativa non siano con certezza influenti sotto il profilo del diritto sostanziale. Sicché è solo la falsità sui dati sicuramente decisivi per l'assunzione che comporterà la decadenza, senza possibilità di qualsivoglia valutazione di diverso tipo.”

La Corte di Cassazione nel cassare la sentenza impugnata e rimettere la decisione del caso alla Corte d'Appello enuncia i seguenti principi: “Ampliando ulteriormente il ragionamento, può dirsi che le norme esaminate, sebbene afferiscano tutte alla tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), in una logica anche di salvaguardia rispetto a comportamenti sleali di chi intenda accedere al pubblico impiego (art. 98 Cost.), declinano tuttavia tali interessi con modalità diverse, in modo peraltro non incoerente. Le norme decadenziali sui requisiti di accesso e sulla loro carenza (art. 127 lett. d e art. 75 citt.) si ispirano infatti ad una logica di rigorosa legalità, destinata necessariamente ad operare allorquando i requisiti falsamente indicati siano necessariamente ed in ogni caso ostativi all'accesso all'impiego pubblico.

Viceversa la norma sul licenziamento (art. 55-quater lett. d), nei casi in cui i profili cui attiene la falsità documentale o dichiarativa non sono necessariamente ostativi all'instaurazione del rapporto, opera sul piano di un apprezzamento più duttile, evidentemente sollecitato anche dal fatto che comunque un rapporto è stato instaurato. Pur dovendosi sottolineare come, anche in quest'ultimo caso la previsione espressa dell'ipotesi come causa di licenziamento evidenzi la necessità che il verificarsi oggettivo di falsità sia seriamente valutato dalla P.A., secondo un assetto rispetto al quale questa Corte ha significativamente delineato oneri probatori anche a carico del lavoratore raggiunto dalla relativa contestazione disciplinare, al fine di comprovare la propria buona fede (Cass. 24 agosto 2016, n. 17304). 8. Da quanto precede deriva che non può ritenersi corretta l'affermazione della Corte d'Appello in merito all'irrilevanza dell'accertamento in ordine alla decisività della falsa dichiarazione rispetto all'assunzione, in quanto, rispetto al caso delle condanne penali pregresse, la decadenza ex lege (letteralmente "per legge", si utilizza in luogo dell'espressione "in esecuzione diretta di una norma"), al di fuori dal procedimento disciplinare, può trovare applicazione solo se la dichiarazione mendace riguardi condanne che non avrebbero in ogni caso consentito l'instaurazione del rapporto di pubblico impiego”.

Già in precedenza gli Ermellini (credo sia un sinonimo di corte suprema di cassazione) si erano pronunciati in merito al licenziamento nel pubblico impiego: “In tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell'accertamento dell'illecito disciplinare, sussistendo l'obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, e, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha richiesto al giudice di merito una nuova valutazione di proporzionalità in presenza di un'assenza ingiustificata, ex art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, per una malattia che, tuttavia, era risultata effettivamente sussistente all'esito della visita fiscale intervenuta nell'immediatezza) (Cassazione civile sez. lav., 26/09/2016, n.18858).

Dovrà quindi giungersi ad una più congrua valutazione dei fatti comportamentali posti a base del licenziamento, anche sotto il profilo della loro idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

Applicando tali parametri valutativi alla fattispecie per cui è causa se ne può inferire che ciò che conta è l'accertamento in ordine alla decisività della falsa dichiarazione rispetto all'assunzione, in quanto, a fronte di condanne penali pregresse il licenziamento può trovare applicazione solo se la dichiarazione mendace riguardi condanne che non avrebbero in ogni caso consentito l'instaurazione del rapporto di pubblico impiego.

La P.A. deve procedere previa valutazione della gravità concreta dell'accaduto.

In altre parole, le dichiarazioni non veritiere in occasione dell'accesso al pubblico impiego sono causa di licenziamento se tali infedeltà comportino la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l'instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A. Nelle altre ipotesi, le produzioni o dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell'assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti. Ad avviso di chi scrive il provvedimento espulsivo irrogato al Le. appare sproporzionato sulla scorta delle considerazioni che seguono.

Innanzitutto non è stato dedotto, da parte convenuta, che il reato di guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell'uso di bevande alcoliche ex art. 186, commi 1° e 2° lett. c) e 2 sexies del D.Lgs. n.285/1992 avrebbe impedito l'assunzione dell'istante.

Mette conto evidenziare che l'incidenza ostativa della condotta all'instaurazione del rapporto poteva giustificarsi laddove il Le. fosse destinato a mansioni di autista rispetto alle quale poteva azzardarsi una prognosi infausta sulla correttezza della futura condotta del ricorrente.

Va, poi, considerato che al momento dell'assunzione il reato commesso si era estinto per effetto del positivo espletamento da parte del ricorrente del lavoro sostitutivo presso la AUSL Umbria 2 (cfr. all.to n.3 al ricorso) e che successivamente non risultano a carico del ricorrente procedimenti penali che possano far dubitare in merito alle qualità morali e professionali del ricorrente, né tantomeno sono stati allegati elementi probatori che attestino l'assenza di fiducia e serietà, requisiti da considerarsi indispensabili per professionalità che devono svolgere delicate funzioni [funditus (radicalmente) quella di infermiere].

Non manca di evidenziare il Tribunale che il concorso al quale ha partecipato il ricorrente aveva ad oggetto la stabilizzazione di personale precario, proprio come il Le., circostanza che dimostra come quest'ultimo avesse già lavorato alle dipendenze della AUSL Umbria 2 distinguendosi per professionalità e condotta irreprensibile, non risultando allegate altre contestazioni disciplinari (cfr. contratto di assunzione in atti e domanda di partecipazione del 7.10.2014 all.to n.5 al ricorso).

Anche la giovane età del Le. quando ha sottoscritto le dichiarazioni deve essere valorizzata, apparendo verosimile al Giudicante che il ricorrente al momento fosse convinto di aver saldato il conto con la giustizia eseguendo positivamente il lavoro di pubblica utilità.

Non può d'altronde non rimarcarsi, sotto il profilo dell'elemento psicologico, che la consapevolezza della permanenza dell'antigiuridicità del fatto commesso potesse sfuggire al Le. posto che si tratta di soggetto che non ha una formazione tecnica tale da percepire l'equiparazione di una sentenza di patteggiamento ad una di condanna.

In merito anche la Cassazione ha sostenuto che: “Non integra gli estremi dell'elemento soggettivo della fattispecie incriminatrice di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) la condotta di colui che, avendo riportato due sentenze di applicazione della pena, rispettivamente per reati fiscali e societari, attesti, in sede di dichiarazione sostitutiva, trasmessa al settore tecnico amministrativo provinciale foreste, di non avere riportato condanne penali, in quanto la peculiare natura e gli effetti della sentenza di patteggiamento - che, ancorché equiparata alla sentenza di condanna, ai sensi dell'art. 445, comma primo bis, cod. proc. pen., non implica un accertamento della penale responsabilità dell'imputato - e le modifiche legislative introdotte con i decreti legislativi n. 74 del 2000 e n. 61 del 2002, in materia di reati fiscali e societari, con le conseguenti difficoltà interpretative, rendono plausibile l'assenza in capo all'imputato della piena consapevolezza e volontà della falsità delle sue dichiarazioni (Cassazione penale sez. V, 17/09/2009, n.2088).

Le considerazioni che precedono ben si attagliano alla dichiarazione rilasciata dal ricorrente al momento della presentazione della domanda di partecipazione al concorso dell'ottobre 2014.

La sentenza di applicazione della pena, poi, rientra tra quelle che ai sensi dell'art. 24 DPR 313/2002 non è iscritta nel certificato del casellario giudiziale richiesto dall'interessato o dai privati.

Dai documenti prodotti risulta che allorché il Le. ha chiesto il certificato penale (12 aprile 2018) il documento non conteneva alcuna iscrizione.

In questa sede, il ricorrente si è difeso assumendo di aver agito in perfetta buona fede avendo dichiarato di non aver riportato alcuna condanna, essendosi il reato comunque estinto al momento della dichiarazione rilasciata il 21.06.2017.

La tesi appare plausibile.

L'autocertificazione compilata dal ricorrente il 21 giugno 2017 è intervenuta oltre il termine di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza di applicazione della pena (pronunciata nel 2014) e a carico dello stesso non risultano altri reati.

L'estinzione è un effetto automatico del decorso del tempo e della mancanza di successive condanne, anche se deve essere pronunciata dal giudice in sede di esecuzione, con effetti peraltro meramente dichiarativi e non costitutivi.

Ne consegue che alla data della presentazione dell'autocertificazione il reato (contravvenzione) era già estinto e con essa era venuto meno ogni effetto penale.

Pertanto la dichiarazione del 21.06.2017 di non avere riportato condanne penali non può essere considerata mendace, non tanto e comunque non solo sotto il profilo soggettivo (in quanto assistita da buona fede), ma neppure 'oggettivamente' non perché la sentenza fosse di patteggiamento e non di condanna, ma perché nelle more il reato (e ogni suo effetto) si era certamente estinto.

Non si tratta qui di valutare solo l'elemento psicologico del ricorrente o di giustificarlo in base alle diverse circostanze allegate (tempo trascorso, certificato penale apparentemente 'puliti' - v. allegazione parte ricorrente), ma di escludere che il comportamento richiesto fosse esigibile, tenuto conto, come sopra già evidenziato, che, una persona che appartiene ad un ambito professionale diverso, possa non comprendere le caratteristiche di una sentenza di patteggiamento che l'ordinamento comunque equipara ad una sentenza, come correttamente illustrato dal Giudice di prime cure.

Sotto altro profilo si rimarca che l'amministrazione resistente non ha allegato nulla in ordine alle conseguenze pregiudizievoli conseguite dalla condotta della resistente, neppure un generico danno all'immagine, pertanto, ad avviso del Giudicante il licenziamento non risulta adeguato in presenza della condotta tenuta dal Le. che non è tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, non potendosi reputare che il comportamento del lavoratore afferente le dichiarazioni rese denoti scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, in contrasto con i canoni di buona fede e correttezza.

Il licenziamento comminato al Le. pertanto deve essere dichiarato illegittimo con conseguente riforma dell'ordinanza impugnata.

Quanto alle conseguenze ed alla disciplina sostanziale applicabile condivide questo giudice l'orientamento da ultimo espresso dalla Suprema Corte nella sentenza n. 11868 del 9.6.2016, che esclude l'applicabilità della Legge n. 92/2012, affermando in sintesi che la formulazione dell'art. 18, come modificato dalla legge Fornero, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato, con la conseguenza che non si estendono, in particolare ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18 dello St. dei La..

Tale orientamento è confortato dal nuovo regime normativo, e segnatamente dall'art. 21 d. lgs. 75/2017 che, aggiungendo un nuovo periodo al comma 2 dell'art. 62 D.Lgs n. 165/2001, afferma che "Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”.

Tale disposizione è applicabile ratione temporis (in altri termini con l'applicazione ratione temporis si prende in considerazione la normativa o diritto vigente nel momento in cui si è verificato un fatto o un rapporto) al caso di specie, in quanto la norma è entrata in vigore il 22.6.2017 e difetta di una specifica disciplina transitoria e l'efficacia del contratto di assunzione tra il ricorrente e l'AUSL Umbria 2 è fatta decorrere proprio dal 22.06.2017 (cfr. contratto di assunzione in atti).

Parte resistente ha chiesto in via subordinata, nell'ipotesi di accoglimento del ricorso, la rideterminazione della sanzione in concreto applicabile ai sensi dell'art. 63, comma 2 - bis del D.Lgs. n.165/2001 come modificato dal D.Lgs. n.75/2017 citato.

È noto che sul tema delle conseguenze derivabili dal cattivo esercizio datoriale del potere di doverosa graduazione punitiva, si contrappongano diversi indirizzi interpretativi, distinguendosi le posizioni di coloro i quali ammettono che la determinazione della sanzione 'giusta' possa sempre avvenire anche in sede contenziosa (v. Cass. civ. Sez. L, Sentenza n. 5118 del 09/09/1988), rispetto a quanti, invece, escludono la riconoscibilità di un potere di conversione in capo al giudicante, anche in quest'ultimo caso, tuttavia, registrandosi l'ulteriore divaricazione tra i sostenitori della tesi secondo cui una preclusione siffatta potrebbe essere superata solo quando sia il datore di lavoro convenuto in giudizio per l'annullamento della sanzione a chiederne, nel suo atto di costituzione, la riconduzione ad equità (v. Cass. civ. Sez. L, Sentenza n. 8910 del 13/04/2007), e coloro che, di contro, ritengono assoluto il divieto in parola (v. Cass. civ. Sez. 6-L, Ordinanza n. 2330 del 06/02/2015; id. Sez. L, Sentenza n. 22150 del 29/10/2015).

Per quanto qui rileva, a tale ultimo più convincente indirizzo si intende quindi dare seguito, convenendosi sul fatto che la graduazione della sanzione in relazione alla gravità dell'illecito disciplinare sia espressione tipica di una discrezionalità rientrante nel più ampio potere organizzativo quale aspetto del diritto di iniziativa economica privata, riconosciuto dall'art. 41, comma 1 Cost. al datore di lavoro. I criteri di scelta dal medesimo adottati nell'esercizio del potere graduazione disciplinare, pertanto, non sono sindacabili nel merito dal giudice, che deve limitarsi a verificare oltre all'esistenza in punto di fatto dell'addebito il rispetto delle disposizioni legislative e contrattuali in materia e, in particolare, del principio inderogabile di cui al predetto art. 2106 cod. civ..

La violazione di tali criteri comporta, in altri termini, l'illegittimità della sanzione disciplinare, senza che al giudice sia concesso il potere di sostituirsi all'imprenditore nell'applicare altra meno grave sanzione ritenuta proporzionata all'infrazione accertata. Diversamente opinando, invero, si darebbe ingresso a una non consentita funzione di sostanziale supplenza della valutazione del giudice rispetto a quella riservata al datore di lavoro, strettamente correlata al suo ruolo di governo dell'impresa, con effetti tanto più insostenibili nel caso di specie, ove si consideri che l'ipotizzata sostituzione del giudicante verrebbe ad occupare non solo attribuzioni propriamente gestionali, ma anche funzioni tipicamente correlate, qui, alla peculiare natura pubblica del predetto datore di lavoro, con conseguente indebito esercizio di una attività di amministrazione attiva, in spregio alla regola del riparto di poteri.

Nonostante la previsione del D.Lgs n. 75/2017 che all'art. 21 comma 2 ha introdotto un nuovo comma 2-bis all'art. 63 del D.Lgs n. 165/2001 (disposizione in alcun modo qualificabile come regola di interpretazione autentica) a mente del quale: “Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato” ritiene il Tribunale, nella genericità della richiesta avanzata dalla parte resistente, di non poter esercitare tale potere, rimesso comunque alla valutazione del Giudice, in assenza di allegazione da parte dell'AUSL del CCNL applicato al ricorrente e del Codice di comportamento richiamato nella lettera di contestazione disciplinare e di qualsiasi altra indicazione utile che avrebbero consentito a chi scrive di acquisire dei parametri oggettivi ai quali ancorare la determinazione della sanzione conservativa da applicarsi al ricorrente.

Le oscillazioni giurisprudenziali, anche della Suprema Corte intervenuta successivamente all'emissione dell'ordinanza impugnata ed aventi ad oggetto proprio la fattispecie al vaglio, giustificano la compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio. 

P.Q.M.

disattesa ogni diversa istanza, eccezione o deduzione, il Tribunale di Terni, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:

- in accoglimento dell'opposizione e in riforma dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Terni, GL dott.ssa Francorsi in data 26.02.2019 n.550/2019 dichiara la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a Le. Fe. in data 7.08.2018;

- ordina alla resistente AUSL Umbria 2, in persona del legale rappresentante pro-tempore, di reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro, nelle medesime mansioni;

- condanna la resistente AUSL Umbria 2 alla corresponsione di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per lo stesso periodo, con rivalutazione ISTAT ed interessi legali come per legge;

- rigetta la domanda subordinata formulata dalla parte resistente;

- dichiara le spese di lite di entrambe le fasi del giudizio compensate;

- Sentenza resa ex articolo 1, comma 57, L. n. 92 del 2012, depositata entro dieci giorni dall'udienza di discussione.

Terni, il 18 febbraio 2020

Depositata in Cancelleria il 18/02/2020