Sanità, dichiarazione falsa è causa di licenziamento?
Gent.mi,
voglio condividere questa sentenza, affinché sia di esempio. Il collega, non saprei dire se scientemente o ingenuamente ha dichiarato di non avere procedimenti penali in corso. Quante volte, nello stilare la domanda per un concorso, abbiamo scritto di: “non aver riportato condanne penali”. Una frase considerata una prassi, spesso sottovalutata, ma, che al collega avrebbe potuto costare caro con il licenziamento.
Ciò nonostante, il collega avendo accettato un patteggiamento, implicitamente avrebbe ammesso la colpa, quindi il reato, anziché la reclusione avrebbe accettato lavori socialmente utili. Essendo trascorsi più di due anni, il reato commesso era stato dichiarato estinto e nulla risultava dal certificato del casellario. Il ricorrente, diversamente dalla ASL che ne ha preteso il licenziamento, sosteneva di essere convinto che il tutto si fosse concluso con lo svolgimento dei lavori socialmente utili.
L’infermiere è stato assolto poiché chi lo ha giudicato ha ritenuto non avesse una formazione tecnica tale da percepire la differenza tra una sentenza di patteggiamento ad una di condanna.
Il licenziamento del collega venne dichiarato illegittimo e reintegrato al posto di lavoro con la stessa mansione, condannando la AUSL alla corresponsione di un'indennità risarcitoria, dall’ultima retribuzione, a partire dal licenziamento, fino al giorno di reintegro, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per lo stesso periodo, con rivalutazione ISTAT ed interessi legali come per legge.
Ho deciso di condividerlo dal momento che ho vissuto, un qualcosa di analogo, attraverso una collega. Sono subentrata, solo successivamente ad un verdetto/condanna, di una commissione disciplinare. Delle colleghe, difese da un avvocato, difronte ad una commissione disciplinare, sono state punite, per un fatto addebitatogli, con la sospensione dal lavoro di 15 giorni. …mi venne detto di guardare la documentazione, ed esprimere ciò che pensavo. Ricordo di aver letto la documentazione, incasellato giorni, ore e dati, in excell, fu evidente che le colleghe non erano responsabili di quanto erano state accusate. Provai a dire loro, di ricorrere, con quanto avevo rilevato, ma le colleghe devastate dai fatti, non ne vollero sapere. Paradossalmente, l’unica aspirazione era fuggire da quel contesto, una di loro era in odore di cambio contestuale, ma, il fatto che gli era stato ascritto, non citato all’atto della domanda, bloccò il trasferimento. Io stessa parlai con la dirigente, ma, nulla valsero le spiegazioni, accludendo anche la documentazione. La cosa mi lasciò piuttosto male. L’avvocato delle colleghe scrisse dieci pagine, in loro difesa, ma non rilevò quanto rilevai io da infermiera, avvezza allo studio di certe sentenze. E’ importante, più che mai, che gli avvocati si consultino e collaborino con chi vive le realtà sanitarie quotidianamente. Un esempio: “il banale foglietto dell’aemogas analisi, ad esempio, rispetto ad una cartella clinica, mal compilata, può essere un ottimo supporto a vantaggio dei fatti, dal momento che contiene la data, e l’orario dell’esame”.
Nella speranza sia utile ai colleghi, cordialmente
Nursing Up Lazio
Laura
Rita Santoro
Dichiarazioni non veritiere ex DPR 445/00 e conseguenze sul rapporto di lavoro instaurato
Fonte:
centro studi di diritto sanitario e farmaceutico
In
occasione dell'accesso al pubblico impiego le dichiarazioni non
veritiere sono causa di licenziamento se comportino la carenza di un
requisito che avrebbe in ogni caso impedito l'instaurazione del
rapporto di lavoro con la P.A. Nelle altre ipotesi, le produzioni o
dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell'assunzione
possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il
licenziamento in esito al relativo procedimento disciplinare ed a
condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la
misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti
tenuti.
Tribunale
Terni sez. lav., 18/02/2020, , n.63
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI TERNI SEZIONE LAVORO
in persona del giudice del lavoro Dott.ssa Manuela Olivieri ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al numero 188 del registro generale dell'anno
2019 promossa DA
Le.
Fe., elettivamente domiciliato in Terni, via B. Faustini n.8, presso
lo studio del procuratore Avv.to Anna Befani che lo rappresenta e
difende giusta delega rilasciata a margine del ricorso
RICORRENTE
CONTRO
AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE UMBRIA N. 2, con sede legale in Terni via Bramante n. 37, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta delega in calce al presente atto, dall'Avv. Mario Rampini presso il cui studio in Perugia, Piazza Piccinino n. 9, è elettivamente domiciliata, in forza di delibera del Commissario straordinario di conferimento di incarico n. 92 del 17.4.2019
RESISTENTE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
ricorso depositato il 26.03.2019 l'istante si opponeva ad ordinanza
resa ex art 1, comma 49, della L. 92/12, in data 25.02.19 dal
Tribunale di Terni, dott.ssa Francorsi, con la quale era stata
rigettata l'impugnativa del licenziamento comminato dalla opposta il
7.08.18.
Esponeva
in particolare: - di aver presentato in data 7.10.2014 domanda per la
partecipazione alla selezione pubblica per titoli e colloquio a posti
di collaboratore
professionale sanitario - infermiere categoria D,
indetta con provvedimento prot. n. 90678 del 26.08.2014; - che in
data 16.09.2016 veniva indetto un concorso finalizzato alla
stabilizzazione del personale precario per posti di collaboratore
professionale sanitario; - di essere stato assunto il 21.06.2017 come
infermiere categoria D con rapporto di lavoro a tempo indeterminato;
- che in sede di sottoscrizione del contratto indicava di “non
aver riportato condanne penali”;
- di essere stato destinatario nel 2014 di sentenza di patteggiamento
per guida in stato di ebbrezza con sostituzione della pena con lavoro
socialmente utile svolto presso l'Azienda USL Umbria 2 e che
successivamente il reato era stato dichiarato estinto; - che con nota
del 16.04.2018 l'Ufficio
Procedimenti Disciplinari gli contestava l'illecito disciplinare
consistente nella commissione di falsità dichiarative;
- che il 31.05.2018 veniva disposta la sua audizione durante la quale
depositava certificato del casellario giudiziale su richiesta
dell'interessato ed evidenziava di non aver compreso la natura della
sentenza ex art. 445 c.p.p., stante anche il beneficio della non
menzione nel certificato del casellario giudiziale; - che il
7.08.2018 con nota prot. n. 189785 l'Azienda gli irrogava il
licenziamento disciplinare senza preavviso ai sensi dell'art. 55
quater, comma 1, lett. d) del D.Lgs. n. 165/2001.
Sosteneva
l'illegittimità del licenziamento essendo l'Azienda convenuta
decaduta dall'azione disciplinare per intempestività del
procedimento, e comunque, da un lato l'ingiustificatezza del
provvedimento espulsivo per insussistenza del fatto e assenza di dolo
da parte del lavoratore, dall'altro la sproporzione tra il fatto
commesso e la sanzione.
Rigettato
il ricorso, l'opponente sosteneva: - l'erroneità dell'ordinanza
impugnata nella parte in cui, sotto il profilo della tempestività
dell'azione disciplinare, il Giudice di prime cure non aveva
considerato che il ricorrente in sostituzione della pena di cui alla
sentenza di patteggiamento, aveva prestato nell'estate 2014 lavori di
pubblica utilità proprio presso l'Azienda convenuta che ben
conosceva la ragione dello svolgimento di tale servizio da parte del
ricorrente, procedendo, anzi, alla stabilizzazione dello stesso nel
2017 ed ingenerando nel lavoratore il convincimento del corretto
instaurarsi del rapporto di lavoro; - l'insussistenza del fatto e la
buona fede del lavoratore posto che al momento della dichiarazione il
reato
commesso era stato dichiarato estinto e nulla risultava dal
certificato del casellario,
ritenendo
il ricorrente che tutto si fosse concluso con lo svolgimento dei
lavori socialmente utili;
- l'errore scusabile in cui sarebbe caduto nel compilare il modello
di dichiarazione dove veniva richiesto di inserire se fosse stata
concessa “amnistia, indulto, condono o perdono” senza,
tuttavia, alcun riferimento alla sentenza di patteggiamento;
- sproporzione tra fatto commesso, inidoneo a ledere il rapporto
fiduciario con il datore di lavoro, e sanzione irrogata,
contestazione non vagliata dal Giudice di prima istanza che ha
limitato l'indagine alla verifica della riconducibilità del fatto
commesso dal lavoratore alla fattispecie astratta senza accertare in
concreto la lesività del fatto.
Tanto
premesso nella presente sede l'istante chiedeva accertarsi
l'illegittimità del recesso, con tutela reintegratoria ed indennità
risarcitoria in misura massima e vittoria delle spese di lite.
L'opposta
si costituiva tempestivamente in giudizio, eccependo in via
preliminare la nullità e/o inammissibilità del ricorso, in quanto
carente dei requisiti essenziali di cui all'art. 414 c.p.c.; - in via
principale, opponendosi alle avverse richieste, insisteva per il
rigetto della opposizione con conferma del provvedimento impugnato; -
in via subordinata, nella denegata ipotesi di annullamento della
sanzione disciplinare, chiedeva di rideterminare la sanzione in
applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti,
tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico
interesse pubblico violato, ai sensi dell'art. 63, comma 2-bis, del
D.Lgs. n. 165 del 2001, con vittoria delle spese di lite.
Non
veniva espletata l'istruttoria orale ed all'udienza del 13.02.2020
questo Giudice riservava la causa in decisione, ex art. 1, comma 57,
della l. n.92/12.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.
Eccezione di nullità e/o inammissibilità.
Deve
preliminarmente essere esaminata l'eccezione di nullità e/o
inammissibilità del ricorso in opposizione sollevata dall'Azienda
convenuta per violazione dell'art. 1, comma 52, della L. n. 92 del
2012 norma che dispone:
“Contro
l'ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al comma 49 può
essere proposta opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui
all'articolo 414 del codice di procedura civile” sull'assunto che
l'impugnazione non indicherebbe né il provvedimento opposto, né
alcuna esposizione delle circostanze fattuali necessarie per
comprendere i motivi di impugnazione in contrasto quindi con l'art.
414, comma 1, n. 3) e 4), c.p.c. nella parte in cui prescrive quali
elementi essenziali del ricorso “3. la determinazione dell'oggetto
della domanda; 4.
l'esposizione
dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda
con le relative conclusioni”.
L'eccezione
è destituita di fondamento per quanto di ragione.
Sul
punto il Tribunale richiama l'insegnamento della Suprema Corte
secondo cui: “Nel
nuovo rito del lavoro per aversi nullità del ricorso introduttivo
del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto
della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e
delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è
sufficiente l'omessa indicazione dei corrispondenti elementi in modo
formale, ma è invece necessario che ne sia impossibile
l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto,
effettuabile anche d'ufficio e in grado d'appello con apprezzamento
del giudice del merito censurabile in sede di legittimità solo per
vizi di motivazione”
(Cass. n.5794/2004).
Alla
stregua dei su riportati principi, ritiene questo giudice che il
ricorso introduttivo del giudizio sia adeguatamente determinato.
La
parte ricorrente ha esaurientemente e sufficientemente, anche nel
dettaglio, esposto tutti gli elementi in fatto ed in diritto a
sostegno della sua domanda; ha, infatti, indicato il provvedimento
impugnato emesso dal Tribunale in data 26.02.2019 allegandolo al
ricorso in opposizione, nonché esposto le ragioni a fondamento della
sua pretesa, a suo dire non correttamente valutate dal Giudice di
prime cure, rassegnando le relative conclusioni.
La
riprova di tale circostanza si ricava dalla lettura della memoria di
costituzione, laddove viene compiutamente ed esaurientemente svolta
la difesa della resistente, con particolare riferimento a tutti gli
aspetti della fattispecie dedotta in giudizio.
2.
Eccezione di decadenza.
È
necessario brevemente richiamare la contestazione disciplinare mossa
al ricorrente con nota del 16.04.2018 UPD USL Umbria 2 che ha
determinato il licenziamento.
“Nello specifico si segnala quanto segue: il suddetto (Le. Fe.) in data 7.10.2014 ha prodotto istanza di partecipazione all'avviso pubblico per titoli e colloquio a posti di infermiere ... il predetto, nell'ambito della domanda di partecipazione di concorso ha tra l'altro dichiarato quanto segue:
3)
Di non aver mai riportato condanne penali. In data 21.06.2017 il sig.
Le. Fe. assunto
in qualità di infermiere
con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, all'atto della
sottoscrizione del contratto individuale, ha rilasciato apposita
dichiarazione sostitutiva ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R.
n.445 del 2000, dalla quale è possibile rilevare quanto segue: “di
non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di
provvedimenti che riguardano l'applicazione di misure di prevenzione,
di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel
casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa”.
Dalla successiva acquisizione del certificato del casellario
giudiziale è emerso che il sig. Le. Fe. ha riportato il
provvedimento in esso specificato. Valutati i contenuti delle note
trasmesse, si ritiene sussistano i presupposti per l'avvio del
Procedimento disciplinare, volto a rilevare eventuali responsabilità
in quanto il comportamento posto in essere dal dipendente sig. Le.
Fe. è in palese violazione degli obblighi e dei doveri d'ufficio ai
sensi della vigente normativa contrattuale, così come recepita nel
Codice Disciplinare del Comparto ... I fatti sommariamente descritti
potrebbero configurarsi quali falsità dichiarative con riferimento
alle disposizioni di cui al D.P.R. n.445/2000 ed all'ulteriore
normativa vigente in materia” (cfr. all.to n.2 al fascicolo parte
ricorrente).
È
documentalmente provato ed incontestato che nella domanda di
partecipazione al concorso redatta su fac
simile
predisposto dall'Amministrazione ed allegata al bando il ricorrente
dichiarava “Di
non aver riportato condanne penali”
e al momento della sottoscrizione del contratto di lavoro in data
21.06.2017 il Le. firmava dichiarazione sostitutiva di certificazione
ex art. 46 del D.P.R. n.445 del 2000, richiesto dall'art. 19 del
D.P.R. n.220/2001, dichiarando di “Non
avere riportato condanne penali e di non essere destinatario di
provvedimenti che riguardano l'applicazione di misure di sicurezza e
di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti
amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della
vigente normativa”
(cfr. all.to n.5 alla memoria).
Dal
certificato del casellario giudiziale depositato dalla Azienda
(all.to n.6 fascicolo resistente) emerge che il ricorrente è stato
condannato con la pena
dell'arresto per guida in stato di ebbrezza in
conseguenza
dell'uso di bevande alcoliche
ai sensi dell'art. 186, commi 1° e 2° lett. c) e 2 sexies del
D.Lgs. n.285/1992 pena sostituita per effetto della scelta del rito
alternativo (patteggiamento ex artt. 444 e 445 c.p.p.) con il lavoro
di pubblica utilità in favore della AUSL Umbria 2 per giorni 108
(sentenza 14/725 del 18.06.2014 Tribunale di Terni, cfr. all.ta al
ricorso).
Parte
opponente sostiene l'intempestività della contestazione
disciplinare, posto che, avendo prestato lavori socialmente utili, in
sostituzione di altra pena per effetto della sentenza di
patteggiamento ex art. 445 c.p.p., proprio presso l'Azienda convenuta
nell'estate del 2014, la AUSL Umbria 2 avrebbe dovuto conoscere da
tale momento le risultanze della certificazione del casellario
giudiziale del ricorrente e non lasciar trascorrere 4 anni
(contestazione del 19.03.2018) ingenerando nel Le. il legittimo
convincimento della corretta instaurazione del rapporto di lavoro.
A
supporto della propria tesi la difesa attorea, richiamando la
disciplina legislativa del pubblico impiego in materia di illecito
disciplinare (art. 55 bis e ss. D.Lgs. n.165/2001 come modificato dal
D.Lgs. n.75/2017), ha evidenziato che nel caso di specie il rapporto
di lavoro tra il ricorrente e la AUSL Umbria 2 deve essere inteso
unitariamente a far data dal 2014 con la conseguenza che la
dichiarazione resa nel 2017 deve considerarsi riassorbita nella
precedente rilasciata in data 7.10.204 allorquando il Le. presentava
la domanda per la partecipazione alla selezione pubblica per titoli e
colloquio a posti di collaboratore professionale sanitario -
infermiere indetta con provvedimento del 26.08.2014, domanda nella
quale dichiarava di “Non
aver mai riportato condanne penali”.
La
tesi attorea per quanto suggestiva non coglie nel segno,
uniformandosi il Tribunale all'orientamento da ultimo confermato
dalla Suprema Corte a mente del quale: “in tema di pubblico impiego
contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio
previsto per la conclusione del procedimento disciplinare
dall'acquisizione della notizia dell'infrazione (D.Lgs. n. 165 del
2001, ex art. 55 bis, comma 4), in conformità con il principio del
giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310
del 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale
acquisizione, da parte dell'ufficio competente regolarmente investito
del procedimento, riguardi una "notizia
di infrazione"
di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo
corretto, l'avvio
al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della
contestazione dell'addebito, dell'istruttoria e dell'adozione della
sanzione; ciò vale anche nell'ipotesi in cui il procedimento
predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in
corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione
del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in
modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente
(cfr. Cassazione civile sez. lav. del 05/12/2018 n.31482, conf.
Cass., n. 7134 del 2017).
Prosegue
la Corte concludendo che: “In
tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego
contrattualizzato, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis,
comma 4, ai fini della decadenza dall'azione disciplinare occorre
avere riguardo alla data in cui l'amministrazione datrice di lavoro
esprime la propria valutazione in ordine alla rilevanza e consistenza
disciplinare della notizia dei fatti rilevanti disciplinarmente e la
consolida nell'atto di contestazione, assumendo rilievo l'eventuale
ritardo nella comunicazione solo allorché detto ritardo sia di
entità tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del
diritto di difesa"
(Cass. n. 31482/2018 citata che richiama Cass., n. 16900 del 2016).
Ritiene
il Tribunale che la contestazione disciplinare nel caso di specie
debba reputarsi assolutamente tempestiva, in ragione della notizia
dell'infrazione pervenuta all'UPD in data 30.03.2018 con nota prot.
n. 0091576 posto che solo a seguito di tale nota l'Ufficio competente
è stato reso edotto del fatto addebitato al ricorrente nella sua
completezza ed ha potuto valutarne la gravità ai fini disciplinari
avviando il procedimento disciplinare con nota del 16.04.2018 con la
quale è stato contestato l'addebito.
Non
manca chi scrive di rammentare, anche a sé stesso, che nel pubblico
impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine
perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare
dall'acquisizione della notizia dell'infrazione (D.Lgs. n. 165 del
2001, art. 55 bis, comma 4), in conformità con il principio del
giusto procedimento, assume rilievo esclusivamente il momento in cui
tale acquisizione, da parte dell'ufficio competente regolarmente
investito del procedimento, riguardi una notizia di infrazione di
contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto,
avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali
della contestazione dell'addebito,
dell'istruttoria e dell'adozione della sanzione.
Non
assume alcuna rilevanza giuridica rispetto alla decorrenza del
termine di decadenza per l'esercizio dell'azione disciplinare la
circostanza che altri uffici e/o dipendenti della struttura in cui
presta servizio il lavoratore siano venuti a conoscenza in qualsiasi
modo di condotte e/o vicende giudiziarie del lavoratore, acquisendo
rilevanza ai fini disciplinari solo la notizia dell'infrazione
pervenuta all'UPD competente che la valuterà per l'adozione dei
provvedimenti di competenza.
Nel
caso di specie la condotta di rilevanza disciplinare, consistente
nel rilascio di false dichiarazioni,
è stata conosciuta ed accertata dall'Amministrazione a seguito
dell'apposita istruttoria compiuta dalla direzione personale mediante
confronto del certificato del casellario giudiziale con il contenuto
delle dichiarazioni rilasciate dal Le., istruttoria che si è
conclusa in data 28.3.2018 con la segnalazione dei fatti stessi al
responsabile SITRO mediante nota prot. n. 89571 di pari data (cfr.
all.to n.1 alla memoria).
Solo
con la consegna di tale relazione ispettiva l'UPD ha avuto compiuta
consapevolezza della notizia di infrazione con modalità idonee a
consentire l'apertura del procedimento disciplinare con lettera di
contestazione datata 16.04.2018.
Il
Le. veniva sentito il 31 maggio 2018 e con nota con nota prot. 189785
del 7.8.2018 gli veniva comunicato il licenziamento senza preavviso
nel rispetto quindi dei 120 giorni di cui all'art. 55 bis del D.Lgs.
n. 165/2001 e successive modifiche.
3.
Insussistenza del fatto e proporzionalità della sanzione.
L'art.
55-quater del D.lgs. n. 165/2000 prevede che “Ferma
la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per
giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto
collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del
licenziamento nei seguenti casi: (...) d) falsità documentali o
dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del
rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera. (...) Nei casi
di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento è
senza preavviso”.
È
stato precisato con riferimento alla fattispecie che ci riguarda che:
“nei
casi, quale quello in esame, in cui è contestata la condotta
prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett.
d), il datore di lavoro, su cui a norma della L. n. 604 del 1966,
art. 5, grava l'onere della prova della giusta causa o del
giustificato motivo di licenziamento, può limitarsi, nel caso in cui
la giusta causa sia costituita dalla falsità documentali o
dichiarative, commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del
rapporto di lavoro, ovvero di progressioni di carriera, e, in
particolare, dalle false attestazioni circa il possesso dei requisiti
di ammissione al concorso e poi di assunzione, a provare nella sua
valenza di inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare, la
falsità delle attestazioni e delle dichiarazioni nella loro
oggettività. Grava, invece, sul lavoratore l'onere di provare gli
elementi che possono giustificare l'assenza di dolo o di colpa.
Deve
ritenersi, infatti, che soltanto l'autore del falso è in grado di
provare, per giustificare la sua condotta, che le false dichiarazioni
ovvero la produzione di documenti falsi, non sono a lui imputabili ma
frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità
delle sue dichiarazioni e/o dei documenti prodotti”
(Cass. civ., sez. lav., 24 agosto 2016 n. 17304).
Per
insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la norma citata
quindi, “lungi
dall'aver reintrodotto un'ipotesi di destituzione di diritto in
contrasto con le norme costituzionali (...), ha individuato alcune
ipotesi, della cui particolare gravità la legge si è riservata ex
ante la valutazione, ai fini dell'attribuzione in capo alle pubbliche
amministrazioni del potere di recesso nella sua forma più forte”
(cfr. Cass. 16.4.2018 n. 9314).
In
una più recente pronuncia, la Suprema Corte si è spinta anche più
avanti affermando che detta norma “delinea
una vera e propria sanzione disciplinare, come tale assoggettata non
solo al relativo procedimento applicativo (art. 55-bis d.l.vo
165/2001), ma anche alla regola della proporzione della misura
rispetto al concreto atteggiarsi dell'infrazione nella singola
vicenda”
(cfr. Cass. 11.7.2019 n. 18699).
La
sentenza citata della Suprema Corte passa al vaglio due norme
disciplinanti le falsità documentali che si verificano al momento
dell'accesso all'impiego pubblico.
Il
D.P.R. n. 3 del 1957, art. 127, lett. d) norma che prevede che vi sia
decadenza dall'impiego "quando
sia accertato che l'impiego fu conseguito mediante la produzione di
documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile".
Il
D.P.R. n. 445 del 2000, art. 75, rispetto alle dichiarazioni
sostitutive, che prevede invece che la "non
veridicità del contenuto" comporti la decadenza del dichiarante
" dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento
emanato sulla base della dichiarazione non veritiera",
casi in cui l'effetto caducatorio (rendere nullo)
è delineato senza margini di apprezzamento discrezionale per la P.A.
e per il solo fatto oggettivo della falsità.
La
Corte ha specificato che: “Il
tema delle falsità documentali che si verificano al momento
dell'accesso all'impiego pubblico coinvolge una pluralità di
disposizioni coesistenti, di cui è necessario apprezzare la portata
ed il rispettivo ambito.
Il
D.P.R. n. 3 del 1957, art. 127, lett. d), in particolare, prevede che
vi sia decadenza dall'impiego "quando
sia accertato che l'impiego fu conseguito mediante la produzione di
documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile".
Il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 75, rispetto alle dichiarazioni
sostitutive, prevede invece che la "non
veridicità del contenuto"
comporti la decadenza del dichiarante " dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla
base della dichiarazione non veritiera".
Si tratta in entrambi i casi di fattispecie in cui l'effetto
caducatorio è delineato come tale da determinarsi, senza margini di
apprezzamento discrezionale per la P.A. e per il solo fatto oggettivo
della falsità. La tutela dell'affidamento della P.A. rispetto alle
autocertificazioni, su cui fa leva la Corte territoriale al fine di
escludere la rilevanza dell'accertamento in concreto dell'incidenza
che quanto erroneamente dichiarato o taciuto, non può infatti
giungere, pena l'intollerabile rinuncia ad un confacente rapporto di
adeguatezza col caso concreto (v. Corte Costituzionale 329/2007,
cit.), fino al punto di determinare la necessaria caducazione di un
rapporto di lavoro rispetto al quale l'erroneità o l'insufficienza
dichiarativa non siano con certezza influenti sotto il profilo del
diritto sostanziale. Sicché è solo la falsità sui dati sicuramente
decisivi per l'assunzione che comporterà la decadenza, senza
possibilità di qualsivoglia valutazione di diverso tipo.”
La
Corte di Cassazione nel cassare la sentenza impugnata e rimettere la
decisione del caso alla Corte d'Appello enuncia i seguenti principi:
“Ampliando ulteriormente il ragionamento, può dirsi che le norme
esaminate, sebbene afferiscano tutte alla tutela del buon andamento
della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.), in una logica anche
di salvaguardia rispetto a comportamenti sleali di chi intenda
accedere al pubblico impiego (art. 98 Cost.), declinano tuttavia tali
interessi con modalità diverse, in modo peraltro non incoerente. Le
norme decadenziali sui requisiti di accesso e sulla loro carenza
(art. 127 lett. d e art. 75 citt.) si ispirano infatti ad una logica
di rigorosa legalità, destinata necessariamente ad operare
allorquando i requisiti falsamente indicati siano necessariamente ed
in ogni caso ostativi all'accesso all'impiego pubblico.
Viceversa
la norma sul licenziamento (art. 55-quater lett. d), nei casi in cui
i profili cui attiene la falsità documentale o dichiarativa non sono
necessariamente ostativi all'instaurazione del rapporto, opera sul
piano di un apprezzamento più duttile, evidentemente sollecitato
anche dal fatto che comunque un rapporto è stato instaurato. Pur
dovendosi sottolineare come, anche in quest'ultimo caso la previsione
espressa dell'ipotesi come causa di licenziamento evidenzi la
necessità che il verificarsi oggettivo di falsità sia seriamente
valutato dalla P.A., secondo un assetto rispetto al quale questa
Corte ha significativamente delineato oneri probatori anche a carico
del lavoratore raggiunto dalla relativa contestazione disciplinare,
al fine di comprovare la propria buona fede (Cass. 24 agosto 2016, n.
17304). 8. Da quanto precede deriva che non può ritenersi corretta
l'affermazione della Corte d'Appello in merito all'irrilevanza
dell'accertamento in ordine alla decisività della falsa
dichiarazione rispetto all'assunzione, in quanto, rispetto al caso
delle condanne penali pregresse, la decadenza ex lege (letteralmente
"per legge", si utilizza in luogo dell'espressione "in
esecuzione diretta di una norma"),
al
di fuori dal procedimento disciplinare, può trovare applicazione
solo se la dichiarazione mendace riguardi condanne che non avrebbero
in ogni caso consentito l'instaurazione del rapporto di pubblico
impiego”.
Già
in precedenza gli Ermellini (credo
sia un sinonimo di corte suprema di cassazione)
si erano pronunciati in merito al licenziamento nel pubblico impiego:
“In tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di
pubblico impiego contrattualizzato è da escludere qualunque sorta di
automatismo a seguito dell'accertamento dell'illecito disciplinare,
sussistendo l'obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la
gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla
portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle
quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale,
e, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione
inflitta. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha richiesto al
giudice di merito una nuova valutazione di proporzionalità in
presenza di un'assenza ingiustificata, ex art. 55-quater del d.lgs.
n. 165 del 2001, per una malattia che, tuttavia, era risultata
effettivamente sussistente all'esito della visita fiscale intervenuta
nell'immediatezza) (Cassazione civile sez. lav., 26/09/2016,
n.18858).
Dovrà
quindi giungersi ad una più congrua valutazione dei fatti
comportamentali posti a base del licenziamento, anche sotto il
profilo della loro idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo
fiduciario.
Applicando
tali parametri valutativi alla fattispecie per cui è causa se ne può
inferire che ciò che conta è l'accertamento in ordine alla
decisività della falsa dichiarazione rispetto all'assunzione, in
quanto, a fronte di condanne penali pregresse il licenziamento può
trovare applicazione solo se la dichiarazione mendace riguardi
condanne che non avrebbero in ogni caso consentito l'instaurazione
del rapporto di pubblico impiego.
La
P.A. deve procedere previa valutazione della gravità concreta
dell'accaduto.
In
altre parole, le dichiarazioni non veritiere in occasione
dell'accesso al pubblico impiego sono causa di licenziamento se tali
infedeltà comportino la carenza di un requisito che avrebbe in ogni
caso impedito l'instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A.
Nelle altre ipotesi, le produzioni o dichiarazioni false effettuate
in occasione o ai fini dell'assunzione possono comportare, una volta
instaurato il rapporto, il licenziamento in esito al relativo
procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le
circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata
rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti. Ad avviso di chi
scrive il provvedimento espulsivo irrogato al Le. appare
sproporzionato sulla scorta delle considerazioni che seguono.
Innanzitutto
non è stato dedotto, da parte convenuta, che il reato di guida in
stato di ebbrezza in conseguenza dell'uso di bevande alcoliche ex
art. 186, commi 1° e 2° lett. c) e 2 sexies del D.Lgs. n.285/1992
avrebbe impedito l'assunzione dell'istante.
Mette
conto evidenziare che l'incidenza ostativa della condotta
all'instaurazione del rapporto poteva giustificarsi laddove il Le.
fosse destinato a mansioni di autista rispetto alle quale poteva
azzardarsi una prognosi infausta sulla correttezza della futura
condotta del ricorrente.
Va,
poi, considerato che al momento dell'assunzione il reato commesso si
era estinto per effetto del positivo espletamento da parte del
ricorrente del lavoro sostitutivo presso la AUSL Umbria 2 (cfr.
all.to n.3 al ricorso) e che successivamente non risultano a carico
del ricorrente procedimenti penali che possano far dubitare in merito
alle qualità morali e professionali del ricorrente, né tantomeno
sono stati allegati elementi probatori che attestino l'assenza di
fiducia e serietà, requisiti da considerarsi indispensabili per
professionalità che devono svolgere delicate funzioni [funditus
(radicalmente) quella di infermiere].
Non
manca di evidenziare il Tribunale che il concorso al quale ha
partecipato il ricorrente aveva ad oggetto la stabilizzazione di
personale precario, proprio come il Le., circostanza che dimostra
come quest'ultimo avesse già lavorato alle dipendenze della AUSL
Umbria 2 distinguendosi per professionalità e condotta
irreprensibile, non risultando allegate altre contestazioni
disciplinari (cfr. contratto di assunzione in atti e domanda di
partecipazione del 7.10.2014 all.to n.5 al ricorso).
Anche
la giovane età del Le. quando ha sottoscritto le dichiarazioni deve
essere valorizzata, apparendo verosimile al Giudicante che il
ricorrente al momento fosse convinto di aver saldato il conto con la
giustizia eseguendo positivamente il lavoro di pubblica utilità.
Non
può d'altronde non rimarcarsi, sotto il profilo dell'elemento
psicologico, che la consapevolezza della permanenza
dell'antigiuridicità del fatto commesso potesse sfuggire al Le.
posto
che si tratta di soggetto che non ha una formazione tecnica tale da
percepire l'equiparazione di una sentenza di patteggiamento ad una di
condanna.
In
merito anche la Cassazione ha sostenuto che: “Non integra gli
estremi dell'elemento soggettivo della fattispecie incriminatrice di
falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483
cod. pen.) la condotta di colui che, avendo riportato due sentenze di
applicazione della pena, rispettivamente per reati fiscali e
societari, attesti, in sede di dichiarazione sostitutiva, trasmessa
al settore tecnico amministrativo provinciale foreste, di non avere
riportato condanne penali, in quanto la peculiare natura e gli
effetti della sentenza di patteggiamento - che, ancorché equiparata
alla sentenza di condanna, ai sensi dell'art. 445, comma primo bis,
cod. proc. pen., non implica un accertamento della penale
responsabilità dell'imputato - e le modifiche legislative introdotte
con i decreti legislativi n. 74 del 2000 e n. 61 del 2002, in materia
di reati fiscali e societari, con le conseguenti difficoltà
interpretative, rendono plausibile l'assenza in capo all'imputato
della piena consapevolezza e volontà della falsità delle sue
dichiarazioni (Cassazione penale sez. V, 17/09/2009, n.2088).
Le
considerazioni che precedono ben si attagliano alla dichiarazione
rilasciata dal ricorrente al momento della presentazione della
domanda di partecipazione al concorso dell'ottobre 2014.
La
sentenza di applicazione della pena, poi, rientra tra quelle che ai
sensi dell'art. 24 DPR 313/2002 non è iscritta nel certificato del
casellario giudiziale richiesto dall'interessato o dai privati.
Dai
documenti prodotti risulta che allorché il Le. ha chiesto il
certificato penale (12 aprile 2018) il documento non conteneva alcuna
iscrizione.
In
questa sede, il ricorrente si è difeso assumendo di aver agito in
perfetta buona fede avendo dichiarato di non aver riportato alcuna
condanna, essendosi il reato comunque estinto al momento della
dichiarazione rilasciata il 21.06.2017.
La
tesi appare plausibile.
L'autocertificazione
compilata dal ricorrente il 21 giugno 2017 è intervenuta oltre il
termine di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza di
applicazione della pena (pronunciata nel 2014) e a carico dello
stesso non risultano altri reati.
L'estinzione
è un effetto automatico del decorso del tempo e della mancanza di
successive condanne, anche se deve essere pronunciata dal giudice in
sede di esecuzione, con effetti peraltro meramente dichiarativi e non
costitutivi.
Ne
consegue che alla data della presentazione dell'autocertificazione il
reato (contravvenzione) era già estinto e con essa era venuto meno
ogni effetto penale.
Pertanto
la dichiarazione del 21.06.2017 di non avere riportato condanne
penali non può essere considerata mendace,
non tanto e comunque non solo sotto il profilo soggettivo (in quanto
assistita da buona fede), ma neppure 'oggettivamente' non perché la
sentenza fosse di patteggiamento e non di condanna, ma perché nelle
more il reato (e ogni suo effetto) si era certamente estinto.
Non
si tratta qui di valutare solo l'elemento psicologico del ricorrente
o di giustificarlo in base alle diverse circostanze allegate (tempo
trascorso, certificato penale apparentemente 'puliti' - v.
allegazione parte ricorrente), ma di escludere che il comportamento
richiesto fosse esigibile, tenuto conto, come sopra già evidenziato,
che, una persona che appartiene ad un ambito professionale diverso,
possa non comprendere le caratteristiche di una sentenza di
patteggiamento che l'ordinamento comunque equipara ad una sentenza,
come correttamente illustrato dal Giudice di prime cure.
Sotto
altro profilo si rimarca che l'amministrazione resistente non ha
allegato nulla in ordine alle conseguenze pregiudizievoli conseguite
dalla condotta della resistente, neppure un generico danno
all'immagine, pertanto, ad avviso del Giudicante il licenziamento non
risulta adeguato in presenza della condotta tenuta dal Le. che non è
tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che
la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli
scopi aziendali, non potendosi reputare che il comportamento del
lavoratore afferente le dichiarazioni rese denoti scarsa inclinazione
ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, in contrasto con i
canoni di buona fede e correttezza.
Il
licenziamento comminato al Le. pertanto deve essere dichiarato
illegittimo con conseguente riforma dell'ordinanza impugnata.
Quanto
alle conseguenze ed alla disciplina sostanziale applicabile condivide
questo giudice l'orientamento da ultimo espresso dalla Suprema Corte
nella sentenza n. 11868 del 9.6.2016, che esclude l'applicabilità
della Legge n. 92/2012, affermando in sintesi che la formulazione
dell'art. 18, come modificato dalla legge Fornero, introduce una
modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di
illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non
si prestano ad essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato,
con la conseguenza che non si estendono, in particolare ai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18
dello St. dei La..
Tale
orientamento è confortato dal nuovo regime normativo, e segnatamente
dall'art. 21 d. lgs. 75/2017 che, aggiungendo un nuovo periodo al
comma 2 dell'art. 62 D.Lgs n. 165/2001, afferma che "Il
giudice, con la sentenza con la quale dichiara nullo il
licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per
il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo
dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva
reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro
mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo
svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è
condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali.”.
Tale
disposizione è applicabile ratione temporis (in
altri termini con l'applicazione ratione temporis si prende in
considerazione la normativa o diritto vigente nel momento in cui si è
verificato un fatto o un rapporto)
al caso di specie, in quanto la norma è entrata in vigore il
22.6.2017 e difetta di una specifica disciplina transitoria e
l'efficacia del contratto di assunzione tra il ricorrente e l'AUSL
Umbria 2 è fatta decorrere proprio dal 22.06.2017 (cfr. contratto di
assunzione in atti).
Parte
resistente ha chiesto in via subordinata, nell'ipotesi di
accoglimento del ricorso, la rideterminazione della sanzione in
concreto applicabile ai sensi dell'art. 63, comma 2 - bis del D.Lgs.
n.165/2001 come modificato dal D.Lgs. n.75/2017 citato.
È
noto che sul tema delle conseguenze derivabili dal cattivo esercizio
datoriale del potere di doverosa graduazione punitiva, si
contrappongano diversi indirizzi interpretativi, distinguendosi le
posizioni di coloro i quali ammettono che la determinazione della
sanzione 'giusta'
possa sempre avvenire anche in sede contenziosa (v. Cass. civ. Sez.
L, Sentenza n. 5118 del 09/09/1988), rispetto a quanti, invece,
escludono la riconoscibilità di un potere di conversione in capo al
giudicante, anche in quest'ultimo caso, tuttavia, registrandosi
l'ulteriore divaricazione tra i sostenitori della tesi secondo cui
una preclusione siffatta potrebbe essere superata solo quando sia il
datore di lavoro convenuto in giudizio per l'annullamento della
sanzione a chiederne, nel suo atto di costituzione, la riconduzione
ad equità (v. Cass. civ. Sez. L, Sentenza n. 8910 del 13/04/2007), e
coloro che, di contro, ritengono assoluto il divieto in parola (v.
Cass. civ. Sez. 6-L, Ordinanza n. 2330 del 06/02/2015; id. Sez. L,
Sentenza n. 22150 del 29/10/2015).
Per
quanto qui rileva, a tale ultimo più convincente indirizzo si
intende quindi dare seguito, convenendosi sul fatto che la
graduazione della sanzione in relazione alla gravità dell'illecito
disciplinare sia espressione tipica di una discrezionalità
rientrante nel più ampio potere organizzativo quale aspetto del
diritto di iniziativa economica privata, riconosciuto dall'art. 41,
comma 1 Cost. al datore di lavoro. I criteri di scelta dal medesimo
adottati nell'esercizio del potere graduazione disciplinare,
pertanto, non sono sindacabili nel merito dal giudice, che deve
limitarsi a verificare oltre all'esistenza in punto di fatto
dell'addebito il rispetto delle disposizioni legislative e
contrattuali in materia e, in particolare, del principio inderogabile
di cui al predetto art. 2106 cod. civ..
La
violazione di tali criteri comporta, in altri termini,
l'illegittimità della sanzione disciplinare, senza che al giudice
sia concesso il potere di sostituirsi all'imprenditore nell'applicare
altra meno grave sanzione ritenuta proporzionata all'infrazione
accertata. Diversamente opinando, invero, si darebbe ingresso a una
non consentita funzione di sostanziale supplenza della valutazione
del giudice rispetto a quella riservata al datore di lavoro,
strettamente correlata al suo ruolo di governo dell'impresa, con
effetti tanto più insostenibili nel caso di specie, ove si consideri
che l'ipotizzata sostituzione del giudicante verrebbe ad occupare non
solo attribuzioni propriamente gestionali, ma anche funzioni
tipicamente correlate, qui, alla peculiare natura pubblica del
predetto datore di lavoro, con conseguente indebito esercizio di una
attività di amministrazione attiva, in spregio alla regola del
riparto di poteri.
Nonostante
la previsione del D.Lgs n. 75/2017 che all'art. 21 comma 2 ha
introdotto un nuovo comma 2-bis all'art. 63 del D.Lgs n. 165/2001
(disposizione in alcun modo qualificabile come regola di
interpretazione autentica) a mente del quale: “Nel
caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di
proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in
applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti,
tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico
interesse pubblico violato”
ritiene il Tribunale, nella genericità della richiesta avanzata
dalla parte resistente, di non poter esercitare tale potere, rimesso
comunque alla valutazione del Giudice, in assenza di allegazione da
parte dell'AUSL del CCNL applicato al ricorrente e del Codice di
comportamento richiamato nella lettera di contestazione disciplinare
e di qualsiasi altra indicazione utile che avrebbero consentito a chi
scrive di acquisire dei parametri oggettivi ai quali ancorare la
determinazione della sanzione conservativa da applicarsi al
ricorrente.
Le oscillazioni giurisprudenziali, anche della Suprema Corte intervenuta successivamente all'emissione dell'ordinanza impugnata ed aventi ad oggetto proprio la fattispecie al vaglio, giustificano la compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
disattesa
ogni diversa istanza, eccezione o deduzione, il Tribunale di Terni,
in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:
-
in accoglimento dell'opposizione e in riforma dell'ordinanza emessa
dal Tribunale di Terni, GL dott.ssa Francorsi in data 26.02.2019
n.550/2019 dichiara
la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a Le.
Fe. in data 7.08.2018;
-
ordina alla resistente AUSL Umbria 2, in
persona del legale rappresentante pro-tempore, di reintegrare il
ricorrente nel posto di lavoro, nelle medesime mansioni;
-
condanna
la resistente AUSL Umbria 2 alla corresponsione di un'indennità
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per
il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del
licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque
in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto
il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività
lavorative, nonché al versamento dei contributi assistenziali e
previdenziali per lo stesso periodo, con rivalutazione ISTAT ed
interessi legali come per legge;
-
rigetta la domanda subordinata formulata dalla parte resistente;
-
dichiara le spese di lite di entrambe le fasi del giudizio
compensate;
- Sentenza resa ex articolo 1, comma 57, L. n. 92 del 2012, depositata entro dieci giorni dall'udienza di discussione.
Terni,
il 18 febbraio 2020
Depositata in Cancelleria il 18/02/2020